Il suo nome è Robert PaulSingh

Braccianti schiavizzati, articoli indeterminativi, Tyler Durden e noi

Non era questione di vincere o perdere, non era questione di parole. Quelle grida isteriche erano raptus estatici, come quelli in una chiesa pentecostale.
Quando il combattimento era finito niente era risolto, ma niente importava.
Alla fine tutti ci sentivamo salvi.

(Fight Club)

Non scrivo su questo disgraziato blog da quasi due mesi. Lo so, stavate impazzendo per l’astinenza, ma i grandi fili dei poteri forti non si manovrano da soli, per non parlare di quanto impossibile sia diventata la burocrazia della compravendita di anime per conto di Satana dopo le ultime europee. Insomma, ho avuto da fare.

Sono passati due mesi, dicevo, e negli ultimi giorni avevo deciso di riprendere con argomenti insulsi come gli esami di maturità, i rigurgiti neofascisti nelle sedi dei partiti di governo, l’astinenza sessuale di Lenny Kravitz o lo smantellamento progressivo dell’unità nazionale per mano di gente armata di camicia verde e tegame per la polenta. Roba leggera, insomma, di cui ridacchiare allegramente a bordo piscina. Poi è successa quella cosa lì. Quella cosa che non ha lasciato indifferente neppure me, che sono notoriamente uno stronzo insensibile. Quella cosa di cui hanno parlato tutti, almeno fino al fischio d’inizio di Italia-Spagna. Quella cosa che non è nuova, non è inaspettata, non è incredibile, non più. È solo più splatter del solito.

È morto un ragazzo. Un lavoratore. Un indiano. Un immigrato. Un irregolare. Un ultimo. Uno schiavo. Un bracciante agricolo. Bracciante. Lavoratore di braccia. Braccia che ricorrono in una crudele ironia lungo questa vicenda convulsa che non parla assolutamente di quel ragazzo: parla di noi. Parla di schiavismo alla luce del sole e di disprezzo della vita e della dignità altrui, di crudeltà diventate convenzioni, di reati diventati ambiente e di particolari sanguinolenti che sono, in fondo, l’unica ragione di tanto clamore. Si è parlato di braccia per giorni, di quelle tatuate dei calciatori all’europeo, di quelle tese nei circoli balilla della Meloni, di quelle agitate in un Parlamento ridotto a ring per incontri di pugilato tra mentecatti. Se n’è parlato tanto da sembrare un cervellotico tributo a Gaber. Poi un braccio, uno solo, sanguinante lontano dalla sua sede, ha improvvisamente smosso le coscienze (si fa per dire) di quelli da una parte che promettono nuove leggi, di quelli dall’altra che invocano manifestazioni e di quelli che esprimono cordoglio impegnandosi con dei “mai più” profondi e credibili quanto una citazione di Bukowski a favore di chiappe.

Ci ha messo quasi due giorni per andarsene, quel ragazzo, e mentre lui se ne andava noi inorridivamo per il racconto dello schiavo che perde un braccio in un incidente e del suo schiavista che lo scarica per strada senza chiamare i soccorsi; noi gridavamo allo scandalo e chiedevamo conto a qualcuno; noi giuravamo di essere disposti a pagare i pomodori il doppio come se servisse davvero; noi pregavamo a favore di social. Noi. Noi. Noi. Mentre lui moriva noi cercavamo dettagli sulla sua vita, e fanculo pure la privacy che ci preoccupa tanto. E li abbiamo trovati. Tanti dettagli morbosi e succulenti con cui riempire i nostri profili di commozione e rivendicare giustissime questioni di principio. Tanti dettagli sull’arrivo in Italia da irregolare, le difficoltà, la china verso il caporalato, la volontà di ferro, la moglie, gli amici e il loro dolore. Tantissimi dettagli urlati come raptus estatici pentecostali, ma uno solo è il preferito di tutti: il suo nome.

Un nome rimbalzato in ogni angolo di quella narrazione che mica serve al protagonista, serve a noi per illuderci di avere il controllo della situazione, di sapere chi sono i cattivi, laddove i buoni siamo sempre noi, ça va sans dire. Un nome che si è fatto largo nei titoli dei giornali, nelle dichiarazioni dei politici e nelle nostre interessantissime e influentissime opinioni social. Un nome proprio che dismette la sua funzione e si trasforma subitamente in bandiera. Sventolato come i vessilli indipendentisti tra i rutti festanti dei leghisti freschi di autonomia differenziata, invadente come il nome di Enzo Tortora nelle arringhe difensive di Berlusconi, fuori luogo come il nome di Mattei nei piani strategici di quelli là, incoerente come l’effige di Che Guevara sulle T-Shirt comprate su Amazon. Tutto con nobili intenti, ci mancherebbe, perché di fronte alla tragedia quel ragazzo non fosse soltanto “un indiano”, “un bracciante”, “un pinco pallino qualsiasi”, un’entità da articoli indeterminativi, ché tutta ‘sta indeterminazione ci mette a disagio, a noi. Dateci un nome, una faccia, un appiglio in questo mare di merda, un simbolo, un alibi.

Così quel nome che non sappiamo nemmeno pronunciare diventa un hashtag, e vola nei trend come un #chiaraferragni qualsiasi, perché i giusti non mancano di sottolinearlo nelle prime righe dei loro j’accuse contro il mondo, il sistema, l’impero galattico e chissà chi altri. Scritto in maiuscolo, che si sappia in lungo e in largo. No, non il nome. Il fatto che loro lo conoscano, quel nome; che sono diversi dallo schiavista cattivo per cui il bracciante è solo forza lavoro da sfruttare fino all’osso, diversi dai razzisti che parlano di un immigrato qualsiasi che doveva starsene a casa sua. Loro non ci stanno a lasciare il ragazzo nell’anonimato, vogliono urlarlo forte e in faccia ai cattivi quel nome. Quel nome che oggi è di un bracciante, ieri era di una ragazza uccisa dal fidanzato, e prima di un bambino abusato, e prima ancora di una donna condannata a morte in Iran, e di un giornalista segregato, e via così indistintamente, senza soluzione di continuità fino ad Abele.

Osservo tutto questo delirio di automatismi e riflessi condizionati che insistiamo a voler chiamare libera espressione, mi torna alla mente “Fight club” e mi domando quante altre volte debba avere platealmente ragione Chuck Palahniuk prima di essere eletto messia assoluto di questo tempo cretino.

Vedo gente sui social indaffarata a scandire forte e chiaro “Si chiamava Satnam Singh” per prendere i like da altra gente che scandisce le stesse lettere, e in questo rito collettivo non riesco a non rivedere la morte di Robert Paulson, gli adepti straniti da Tyler che urla “è una persona, è un mio amico, ha un nome, si chiama Robert Paulson”, e poi quegli stessi adepti che sentenziano “Nella morte abbiamo un nome”, affrettandosi a salmodiare ossessivamente “Il suo nome è Robert Paulson”, sposando un nuovo mantra, un nuovo credo che non li faccia dubitare mai di essere nel giusto.

Mentre scrivo le ultime righe di questo pezzo la partita dell’Italia è finita e quel povero ragazzo è morto né più né meno di prima, ma gli hashtag in trend sono cambiati, chi si stracciava le vesti per l’accaduto sta già serenamente parlando d’altro, e quel nome tanto sventolato chi se lo ricorda più? Il caporalato continua e continuerà a fare quel che gli concediamo di fare, e noi continueremo a condannarlo con il ditino alzato e l’hashtag del momento, sperando che la prossima volta il nome si presti meno a errori di battitura. Come alla fine del combattimento del Fight club, niente è risolto, non importa chi ha vinto, non importa chi ha perso. Importa che alla fine tutti ci sentiamo salvi.

Siamo la canticchiante e danzante merda del mondo.

Una risposta a "Il suo nome è Robert PaulSingh"

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