Bizzarro Erotico Stomp

Il foglio bianco, la mia invidia per Luca Bizzarri e il mestiere della satira

Avevo scritto un pezzo sui fatti di Pisa. Poi l’ho cancellato e l’ho riscritto. Poi l’ho limato, corretto, ricalibrato… Ricancellato e riscritto di nuovo. E poi ancora, e ancora, e ancora. Adesso il pezzo è finito, ma rimane salvato tra le bozze e non sono del tutto convinto di pubblicarlo. Nel frattempo la notizia è passata e perfino i meme sono diventati vecchi, e con ogni probabilità l’articolo rimarrà nel limbo delle bozze fino a quando accadrà un nuovo pestaggio – non credo ci sarà da aspettare molto, comunque – o un qualsivoglia altro evento per il quale cannibalizzerò le mie stesse elucubrazioni per farne qualcosa di abbastanza convincente per le mie paranoie da essere pubblicabile su queste pagine.

Ormai ho perso il conto delle volte in cui mi sono ritrovato di fronte alla stessa pagina bianca, con mille idee nella testa faticando a dar loro una forma scritta che mi convincesse e che fosse a dimensione di questo blog, o dell’idea che io ho di questo blog. Ho decine di pezzi in bozza, alcuni appena iniziati, alcuni bloccati a metà, alcuni – come quello di Pisa – addirittura terminati, eppure destinati all’oblio. Mentre arranco e litigo con i miei dubbi, ogni giorno ascolto il podcast di Luca Bizzarri, lo ammiro, lo invidio. E grazie al cazzo, direte voi, è un comico di successo e di lungo corso, ha messo in piedi uno dei migliori podcast in circolazione e l’ha pure trasformato in uno spettacolo teatrale che porta in giro per tutta Italia, mentre tu stai lì a preoccuparti di qualche articoletto che nemmeno sai in quanti leggeranno. Eppure non è per il successo che lo invidio, oddio, forse un po’ sì ma non è questo il punto: io lo invidio per il mestiere.

Invidio Bizzarri ogni volta che premo play su Spotify come invidio il mio idraulico ogni volta che prende con assoluta sicurezza la chiave inglese della misura giusta per quel tubo di cui non so nemmeno il nome, o il mio meccanico quando sente un rumore e sa subito quale manicotto va sostituito e pure quanto mi verrà a costare, o l’imbianchino che dà un’occhiata all’appartamento e mi dice l’esatta quantità di pittura che serve per ricreare la Guernica in versione Winnie The Pooh nel corridoio. Di fronte a chi sa fare bene il proprio mestiere vengo pervaso dalla sindrome della casalinga e mi trasformo in Alice Kramden degli Honeymooners, sempre pronta a fare un’infornata di biscotti caldi per sfamare i lavoratori sporchi di fuliggine, e forse anche a farmi portare via dal rude muratore che dopo aver stuccato lo spigolo dell’ingresso mi carica in spalla per trascinarmi nella sua grotta e fare di me quello che vuole.

Questo è il punto in cui non capite l’iperbole e mi accusate di sessismo e patriarcato inconsapevole perché ho dipinto una scena in cui la donna è solo una casalinga che deve servire l’uomo lavoratore, e le donne oggetto caricate in spalla, e poi negli Honeymooners c’era violenza di genere e insomma basta con questi stereotipi, siamo nel 2024. Fatto? Ok, proseguiamo.

Ho un debole quasi erotico per chi sa fare bene il suo mestiere, dicevo, e se si tratta di un mestiere di cui non so nulla – e che ancor meno desidero saper fare – questo debole si traduce nell’istinto dei biscotti di cui sopra e finisce lì, tutt’al più in una notte folle dentro una grotta, ma quando il mestiere in questione è qualcosa a cui aspiro (con le dovute proporzioni) e sul quale magari ho iniziato a muovere qualche passo amatoriale, il talento e la confidenza di chi lo fa davvero e ci paga le bollette mi provoca un misto di lucida ammirazione e invidia lacerante.

È qualcosa che mi capita spesso e che il più delle volte riesco a tradurre in positivo come spinta a impegnarmi di più nel mio piccolo – quantomeno per non fare la fine di quello che vede l’elettricista tagliare un cavo e pensa di saper riparare una centralina – ma a volte è più difficile, e nelle ultime settimane ho accusato davvero il colpo. Ascolto “Non hanno un amico” ogni giorno e sento Bizzarri affrontare i temi più disparati, dalle puttanate di Borghi ai suicidi in carcere, dalle citazioni di Kundera a qualsiasi cosa esca dalla bocca di Gasparri, sempre con la chiave giusta, con il tono giusto, con la profondità giusta per mantenere quell’equilibrio in cui l’opera non diventi il personaggio e viceversa; lo ascolto e penso al mio piccolo, a ciò che mi spinge a scrivere su queste pagine bianche, che all’inizio sono bianche per tutti, ma ci vuole un gran mestiere per saperle riempire restando in bilico sull’abisso.

Non vorrei scomodare Nietzsche, che ha sicuramente di meglio da fare, ma il mestiere della satira è proprio saper guardare nell’abisso e saltarne fuori un attimo prima che l’abisso guardi dentro di te. È (anche) raccontare le porcate della politica senza finire per mettere in piedi un partito – per dire quanto nessuno sia al sicuro dall’abisso, nemmeno il più bravo di tutti – è sfottere senza fare il tiro al piccione, andare a fondo di questioni fastidiose senza incarognirsi, toccare nervi sensibili senza farsi governare dai propri.

Il mestiere che invidio a Bizzarri – e di cui la lotta con me stesso degli ultimi giorni mi ha ribadito l’enormità – è la capacità di osservare questi tempi scricchiolanti convogliando l’incazzatura tangibile in una dimensione satirica. È tenere la barra dritta e la clava nell’armadio anche se intorno a te si propongono i Daspo televisivi per gli artisti e si mettono all’indice le parole, se si ostacolano i sindaci che chiedono udienza al governo e si manganellano studenti inermi mentre si scortano idioti col vizio del braccio teso, se si raccontano i morti di un conflitto dividendoli in inaccettabili e danni collaterali con la stessa superficialità con cui un minuto dopo si discutono i rigori della Juve.

Se accade tutto ciò e hai quella stramaledetta coscienza sociale che serve per fare satira, il filo sospeso sull’abisso è sempre più sottile. Se ce l’hai non puoi fare a meno di parlare, non puoi remprimerne l’istinto, ma su quella pagina bianca che è bianca per tutti è facile – troppo facile – dipingere rabbia e livore, scrivere quintali di parole da urlare a una classe politica vergognosa, o riportare articoli della costituzione da sbattere in faccia con disprezzo a un celerino che ridacchia agitando il manganello su un minorenne. È facile farsi sedurre da una trivialità che porta facili consensi di pancia. È facilissimo cedere per un attimo e fare di una pagina bianca una pagina nera. È facilissimo diventare come quelli là.

Ecco, è questo tutto quello che invidio a Luca Bizzarri e che (chissà, lasciatemi sognare) forse un giorno riuscirò a scimmiottare decentemente, e lo so che può non fregarvene nulla, non so nemmeno perché l’ho scritto. Sarà il bisogno di giustificarmi con me stesso per il pezzo su Pisa che non vedrà mai la luce; sarà lo spavento che ho provato quando un paio di giorni fa stavo per scrivere – fortunatamente senza riuscirci, grazie Freud – un tweet di cui mi sarei vergognato; sarà che Bizzarri è bravissimo; sarà che si fa un culo incredibile per far sembrare così facili quei 5 minuti; sarà che oggi è il 4 marzo, e non c’è giorno migliore per ricordare a me stesso (e pure a voi, se questo sproloquio delirante vi ha coinvolto) che è bene saper distinguere chi fa qualcosa di importante, di unico e di grande da me che sto sempre in casa, esco poco, penso solo e sto in mutande.

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